La poetica alfieriana e la sua natura tragica

Mancano nell’Alfieri precisi tentativi di una teoria estetica quali potremmo trovarne nel Parini o nel Metastasio: non mancano però violente intuizioni o prese di posizione che valgano (pur nell’apparente ripresa, a volte, di logori luoghi comuni di poetiche utilitaristiche ed edonistiche) come effettive basi per un sentimento e una pratica della poesia ben lontani dal cerchio di sensibilità ed eleganza delle poetiche precedenti e portati ad un’energia e ad un’ossessiva insistenza che supera le punte piú avanzate del preromanticismo italiano. La poesia è per l’Alfieri l’attuazione piú intensa del «forte sentire» e della libertà, fra loro indissolubili; e se nella dedica della Tirannide la poesia appare surrogato dell’azione là dove questa è impossibile, sempre meglio l’Alfieri intuirà il suo carattere radicale di forza autentica, nata da un «impulso naturale», da una necessità pura, antecedente ogni educazione di gusto, ogni esercizio stilistico (anche se di questo necessitante per la sua concreta realizzazione[1]), cosí come essa esclude necessariamente, nell’uomo-scrittore, ogni condizione di “commissione”, di destinazione cortigiana, di subordinazione al successo e al gradimento di un pubblico.

Legata alla nuova nozione alfieriana del letterato libero, “sprotetto”, uomo del dissenso e della contestazione, uomo intero senza possibile distinzione fra opera e suo creatore:

Una moderna opinione, sfacciata ad un tempo e timida e vile, asserisce che il lettore dee giudicare il libro e non l’uomo. Io dico, e credo, e facile mi sarebbe il provare; che il libro è, e deve essere la quintessenza del suo scrittore [...][2]

stretto e tutt’uno con la verità:

E questa parola Sé STESSO, ch’io tanto ribatto, si dee talmente dall’artefice in tutta la sua immensità immedesimare colla parola VERO, che quando egli dice dopo il maturo esame d’una opera sua, come d’una altrui, NON MI PIACE, equivaglia ciò per l’appunto al dire, NON CI È IL VERO [...][3]

tale nozione di poesia è insieme violentemente lirica (nel senso di assolutamente personale ed autentica) e pragmatica, in quanto forza che suscita azioni, ed è essa stessa azione, e si distingue nettamente (senza con ciò scendere automaticamente ad “oratoria”) da ogni forma di rasserenamento olimpico. Anzi essa è «del forte sentir piú forte figlia»[4], le sue parole sono “tinte nel sangue”, e provocano nell’adeguato lettore non pace e calma superiore e compiaciuta ma «furore» e irrequietudine, nuovo bisogno di azione e di poesia.

Se cosí la poetica alfieriana ha la sua base essenziale nell’idea della poesia «del forte sentir piú forte figlia», dell’«impulso naturale» che accomuna scrittore ed eroe dell’azione, santo, martire, profeta (con il di piú del poeta che è eroe e crea eroi nella sua opera e che può trarre grande poesia da Laura come dalla sua «gatta»[5]), e implica quindi una nozione profondamente soggettiva, individuale, lirica e antimimetica della poesia, deve insieme risolutamente rifiutarsi la lunga tradizione critica che ha finito per considerare la scelta alfieriana della tragedia come un equivoco dovuto all’accettazione di un pregiudizio settecentesco-classicistico (la tragedia come genere «perfettissimo», superiore agli altri generi) e quindi come un effettivo impaccio all’espressione lirica piú autentica o come un organismo poetico da leggere liricamente.

Certo questa tradizione (nelle sue forme moderne fra Croce, Russo, Ramat) ha avuto una sua importanza nello svincolare l’immagine del grande poeta da una interpretazione teatrale piú meccanica ed esterna, sottolineando la forza rivoluzionaria del creatore, la potenza del suo intervento personale nella creazione dei suoi personaggi centrali, l’autenticità della sua sofferta esperienza vitale e storica immessa nella vita delle sue opere tragiche, il valore romantico della stessa struttura di queste che nella loro rapidità, nel loro impostarsi verso la catastrofe, nella insofferenza per sfondi e scene troppo realistiche e per la presenza di confidenti e intermediari traducono l’impeto agonistico-pessimistico del poeta creatore, il suo dolente e impetuoso mondo interiore. Eppure proprio indagando piú a fondo in questo primo momento della creazione tragica alfieriana e nel suo significato storico-personale è possibile comprendere come la stessa impostazione fondamentale del poeta Alfieri fosse radicalmente drammatica, come la sua scelta della tragedia fosse la risposta necessaria alla sua essenziale vocazione tragica, al suo bisogno di una espressione in forme di contrasto, di urto, di dialogo-azione[6]. Cosí come nella sua profonda intuizione della vita e del tempo storico l’Alfieri viveva il motivo tragico del «purtroppo», della realtà inadeguata al movimento esplosivo della individualità con i suoi ideali eroici, il suo tentativo di attuarli, la sua disperata delusione, la sua virile esaltazione di quelli e della propria nobiltà nel momento stesso della loro pratica sconfitta.

In questo diagramma fondamentale dell’intuizione e della esperienza alfieriana viveva una nucleare impostazione tragica, viveva la tragedia di un’epoca storica prerivoluzionaria e della coscienza intuitiva dei limiti stessi dello sforzo eversore e rinnovatore.

Né questa crisi tragica, che investiva i limiti stessi della grande civiltà illuministica, si fermava alla storia, ma si approfondiva in una potente crisi di carattere esistenziale e, a suo modo, religioso: il limite contro cui lotta l’eroe alfieriano non è solo un’ideologia che l’Alfieri avvertiva insufficiente a giustificare la pienezza della personalità dell’uomo, ma è lo stesso ordine delle cose, la natura e la divinità tirannica piú che paterna e provvidenziale.

Sicché la tragedia alfieriana traduce nelle particolari situazioni un tragico urto fra ideale e reale, fra volontà rinnovatrice e limite di un ordine politico, culturale, esistenziale. E la poesia alfieriana si atteggia perciò naturalmente (come avviene del resto anche in tante delle rime piú profondamente alfieriane) in forme tragiche, chiede contrasto e catastrofe, è tragica fin dalla sua piú intima ideazione.

Perciò, se il Settecento italiano aveva perseguito assiduamente la gara con i tragici francesi e l’aspirazione alla vera tragedia (e in realtà aveva piuttosto creato il melodramma o la commedia), solo l’Alfieri, con la forza di interpretazione di un’epoca di crisi quale fu quella preromantica, con la sua novità di personalità drammatica, con la sua esperienza di una vita drammatica poté creare effettive tragedie, a cui lo stesso classicismo, la stessa ricerca di un linguaggio alto, linguisticamente “puro” ed organico, pertengono come alla loro radice interna di essenzialità, di stringente potenza, di nervosa e robusta organicità.

Sarebbe troppo facile, e alla fine frivolo, ripetere ancora la vecchia accusa alla durezza alfieriana o accusare l’Alfieri di monotonia e di tradizionalismo, ché quella stessa fedeltà alla tradizione classica nasceva da un bisogno estremo di stringente violenza, di indagamento energico delle tumultuose passioni, della vita violenta e disordinata del «cupo, ove gli affetti han regno»[7] fin giú nell’inconscio e nel preconscio che fanno dell’Alfieri certo il piú moderno nostro scrittore del Settecento.

E proprio nella forma della tragedia l’Alfieri poteva esprimere il succo piú profondo della sua angoscia storica ed esistenziale, portarlo a vivere poeticamente in quella specie di calor bianco che, all’altezza della Mirra, non si può certo scambiare per frigidità di classicistico rigore.

D’altra parte, guardando, come guarderemo, alla storia concreta della poesia alfieriana, meglio può riconoscersene la natura tragico-teatrale: ché se già questa si mostra potente nelle prime tragedie (ma piú in momenti alti o nella spirale piú nuda dell’azione e soprattutto nel quasi mostruoso impeto affermativo e laceratore dei protagonisti), ben si vedrà come attraverso esperienze, revisioni e persino gare con altri tragici (il caso della Merope) e, piú al fondo, con un processo di maturazione e ampliamento del mondo interiore del poeta, l’Alfieri sia venuto acquistando sempre meglio una capacità tragico-teatrale altissima (per forza di vocazione e per forza di esercizio e di esperienza dunque) fino all’eccezionale misura tragica della Mirra, incomprensibile, in tutta la sua profonda bellezza, se non commisurandone lo sviluppo del nucleo tragico nelle perfette forme di dialogo, di scena, di rapporto fra i personaggi, anche se in un senso molto diverso dalla misura di altri “teatri”, come l’armonia alfieriana è mal comprensibile se misurata sulla base di musiche melodiche e idilliche.

Infine andrà detto, senza reticenze di fronte a dissensi che spesso sembrano esser rimasti al livello di una cattiva lettura liceale: l’Alfieri è senza dubbio il maggiore poeta di un secolo che pur tanto ha dato di poesia, ed è poeta grande oltreché una delle personalità della nostra tradizione cui si è potuto piú guardare, in tempi bassi e perversi, come ad una auctoritas poetico-morale, ad una voce di libertà cui nulla toglie una giusta indicazione dei suoi limiti storici.

Non a caso nell’epoca del sorgere e dell’affermarsi della dittatura critici come Gobetti, Russo, Calosso, Fubini e molti altri, vecchi e giovani antifascisti si volsero ad indagare il mondo poetico e ideale dell’Alfieri. E il suo sonetto, autoritratto di sé e dell’uomo ideale di cui era portatore, poté venir citato, nella chiusa di un saggio a lui dedicato, come parola viva in quel triste tempo, e come parola valida in ogni tempo di fronte ad ogni conformismo e opportunismo:

Uom, di sensi, e di cor, libero nato,

fa di s tosto indubitabil mostra.

Modello del letterato come uomo di contestazione, di protesta e di dissenso, usufruibile, in forza di tutto ciò che esso condensa di esperienza vissuta e di prospettiva ideale, ad ogni livello di nuove condizioni letterarie e politiche:

Né visto è mai dei Dominanti a lato.[8]


1 Al violento attacco a Virgilio per la «vile sublimità» del suo epicedio di Marcello corrisponde il desiderio indicativo, anche se approssimativo, sempre nel Del Principe e delle lettere, di scrittori che «Catoni fossero» e avessero «ad un tempo stesso la eleganza, l’armonia, e il terso favellare» del cortigiano e cinico Orazio (Scritti politici e morali, I cit., p. 141).

2 Ivi, p. 170.

3 Ivi, p. 166.

4 Questa definizione della poesia è in un sonetto del 1795 (n. 281; Rime cit., p. 229) che ne esalta la superiorità rispetto a tutte le altre arti, la profonda natura personale e l’effetto di stimolo sugli affetti dei lettori «mercè gli ardenti armoniosi detti», e insieme esprime la profonda passione alfieriana per la poesia («Poesia, la cui fiamma il cor mi sface»), con quella violenza sentimentale e linguistica che è alla radice della poetica alfieriana e della sua novità romantica nel contesto della letteratura settecentesca.

5 È l’espressione paradossale del potere creativo della poesia contenuta in una lettera al Caluso del 25 novembre 1799 (Epistolario cit., III, p. 42).

6 Esposi questa mia idea della natura tragica della poesia alfieriana nel volume Vita interiore dell’Alfieri, Bologna, Cappelli, 1942. E si veda in questa direzione il libro di R. Scrivano, La natura teatrale dell’ispirazione alfieriana e altri scritti alfieriani, Milano, Principato, 1963. A conferma della poetica e tecnica teatrale delle tragedie alfieriane, contro la tesi di origine crociana della lettura “lirica” di quelle tragedie, poi sviluppata dal Russo e dal Ramat, basti almeno qui ricordare gli scritti dell’Alfieri (i Pareri sulle varie tragedie, le risposte al Calzabigi e al Cesarotti, il breve Parere dell’autore sull’arte comica in Italia) che tutti puntano sulla necessità e verifica definitiva di «recita-rappresentazione» delle sue tragedie, sulla risoluta opposizione alla loro semplice “lettura” e che comandano agli attori particolari modi di gesto, azione, recita («dire adagio – cioè con intelligenza – cose che meritino di essere ascoltate»), in netta distinzione dal “cantabile” di origine melodrammatica e lirica, nella prospettiva del suo “teatro” e della fondazione di un nuovo teatro “italiano” destinato a un nuovo popolo italiano.

7 È espressione del Parini nel sonetto A Vittorio Alfieri, del 1783 (v. 5; in G. Parini, Poesie, a cura di E. Bellorini, 2 voll., Bari, Laterza, 1929, II, p. 267), in cui alla profonda intuizione del mondo poetico dell’Alfieri e del suo «genio sublime» pur contrasta il dissenso circa lo stile: dissenso che (pur tenendo conto delle profonde revisioni e sviluppi alfieriani dopo l’83) è assai significativo per la diversità delle poetiche dei due scrittori.

8 Son. 288, vv. 1-2 e 8; Rime cit., p. 234.